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Lettera dal Sudan
Di Gennaro Aprea (del 16/05/2007 @ 15:21:00, in C) Commenti e varie, cliccato 1158 volte)
UN SALUTO DAL SUDAN
 
 Fonte: Archivio RAI
 
Ciò che leggerete è stato scritto da un socio de “Il Fontanile”, l’Associazione Culturale di Rodano che fa' cose egregie e che ha iniziato ad attirare partecipanti di altri Comuni, compreso Milano, alle iniziative di tutti i generi le quali hanno un crescente successo.
L’autore e un Architetto, Luca Bonifacio, che ho conosciuto quando era un bambino nel lontano 1969. Recentemente è andato in Sudan per lavoro ed ha mandato un saluto a tutti i soci del Fontanile. In questo breve articolo Luca fa’ una breve e bellissima riflessione sulle impressioni che ha avuto appena arrivato nel sud del paese. Io, che ho vissuto e lavorato in Africa in gioventù, l’ho apprezzata particolarmente.
Luca mi ha dato il permesso di inserirla in questo sito.
 
 
“Bor, 10 maggio 2007
 
Sudan. Un nome che lascia la bocca secca.
Secco è il paese come è secco lo sguardo di chi ci cammina sperduto. Il Sudan è un malato appena uscito dal coma e, come un corpo uscito dal coma, si trascina appena, lancia sguardi confusi qua e là e cerca di reinventarsi un’identità che un enorme trauma ha disfatto, cancellato.
Siamo a Bor, una città che il Nilo ha lasciato lungo il suo corso quasi per caso.
Una strada principale, un mercato, una chiesa, una moschea….
Questo grumo di umanità disorientata sta lì con il suo trauma ancora vivo negli occhi.
I bambini vanno da un posto indefinito ad un altro altrettanto indefinito. A volte sono accompagnati da adulti alti come giganti.
A volte i giganti vanno in giro da soli. Anche loro non sanno dove vanno, ma vanno.
Sopra di loro il cielo è gigante pure lui e l’aria carica di fotoni equatoriali è ricamata dal rito micidiale di falchi immensi. Se sulla strada principale si gira a un certo punto a destra, prima del mercato e dopo i tendoni delle Nazioni Unite si arriva in un posto dove, si dice, dei bianchi con magliette tutte uguali curano chi arriva.
Quei bianchi siamo noi.
All’inizio, mi dicevano i colleghi, la gente diffidava. Diceva che là dentro si faceva magia. E un po’ avevano ragione. Del resto solo con la magia si riesce a mandare avanti un ospedale in un posto come questo.
Sono qui da due settimane e sembra che il tempo si sia dimenticato delle sue regole. Il mio mandato è semplice: devo curare il posto che cura.
L’ospedale di Bor è un complesso edificato che, come chi ospita tutti i giorni, appare come un paziente terminale che si tiene su per grazie concessa. Crepe putride, colonne zoppicanti e muri sventrati.
E’ vero, è stato un terremoto a lasciarlo così, ma non potrebbe essere diversamente questo posto. Nel suo tormento sembra che partecipi al calvario quotidiano che questa umanità marziana recita tutti i giorni tra queste mura.
Come in un dramma omerico, sagome con tuniche stracciate si agitano nella penombra.
Sono accasciati, sono appoggiati, sono coperti di mosche, sono intubati. Sono fasciati. Sono sfasciati e portano qualcun altro che si è sfasciato più di loro.
All’improvviso in un angolo inaspettato appare un coro di donne. E’ il mistero di questa genesi umana che ripete la sua profezia assoluta. Un’altra anima è saltata. L’Africa muore.
Questo ce lo diciamo tutti i giorni. Ma qui questo concetto si fa’ reale e tangibile perché chi muore ha una faccia. Una faccia che ieri c’era e oggi non c’è più.
Allora le donne piangono e con loro piangono i muri, le pozze d’acqua, i manghi, le lamiere e i bambini che non sanno perché piangono, ma piangono.
A questo spettacolo assistiamo anche noi. Si, ci siamo. Siamo in molti quindi possiamo ricordare gli uni agli altri che ci siamo veramente. In un modo o nell’altro.
Siamo astronauti alla scoperta di un pianeta perduto, circensi dell’ultima ora che montano giostre, costosissime, giocolieri e trapezisti che saltano nel vuoto cercando di afferrare corpi avvolti in acrobazie impossibili. O almeno così sembra. Ma la quotidianità, come succede spesso nella vita, non appare sempre così lirica e si finisce solo per incazzarsi con la poca reattività locale, il cibo, le mosche e il caldo. Ma questa è la vita. No?
Che vita! una vita africana.
Africano è il tempo. Africana è la rassegnazione.
Africano è il mal di pancia che ti morde.
Africano è il limite a cui tutto converge all’improvviso.
Un insetto diventa una tormenta di cavallette, una febbre diventa un’epidemia incontrollabile, una nube un nubifragio che si porta via tutto, un malinteso diventa una guerra che lacera una regione grande come mezza Europa, per vent’anni.
Questa è l’Africa. Il tutto e il nulla insieme.”
 
 

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